sabato 18 ottobre 2008

MALATI DI RANCORE





Abbiamo letto nei giorni scorsi questa riflessione di Paola Pessina (già Sindaco di Rho) ci sembra molto interessante.
La pubblichiamo invitando i visitatori a commentare.







Fausto Cristofoli e suo figlio Daniele hanno finito a sprangate un ragazzo italiano di pelle nera di 19 anni, Abdul Guiebré, che con due coetanei li aveva infastiditi all’alba nel loro bar, a Milano. L’amministrazione milanese non ha perso un minuto a diramare la parola d’ordine: non è razzismo. Milano e Italia assolte. Con la coda di paglia di chi ha costruito la campagna elettorale della destra vincente a Roma e nel Paese sull’omicidio di Giovanna Reggiani da parte di un balordo rom, Matteo Salvini della Lega mette le mani avanti: "Tutto il mio disprezzo a chi strumentalizza". Per chi si permettesse di dissentire dalle parole d’ordine, disprezzo. Tanto per cambiare: una goccia in più nella marea già montante del rancore. Se la dignitosissima famiglia Reggiani avesse sputato lo stesso disprezzo su chi ha strumentalizzato a proprio vantaggio la morte di Giovanna, quanti starebbero ancora lì ad asciugarsi la faccia? C’è chi il rancore si sforza di spegnerlo, e chi di attizzarlo, in questo Paese. E lo chiama sicurezza.
L’Assessore alla sicurezza in Lombardia è Piergianni Prosperini di AN: per ruolo dovrebbe estinguere i focolai di tensione, e invece è la star di tutte le risse televisive in tema di convivenza civile. La sua analisi: “Ovvio che mi spiace per come è finita questa storia [come no! quelli che la sanno lunga come lui, ce l’hanno proprio stampato in faccia, il dispiacere …] ma parliamo di un giovane che è stato ucciso alle 5,30 del mattino mentre andava al Leoncavallo dopo aver rubato in un bar [inquadrato in 3 stereotipi il ragazzo: vagabondo, comunista, ladro]. Si tratta di una rissa finita male. Stiamo parlando di due individui che vedendosi derubati hanno reagito come fanno normalmente persone che hanno quei precedenti penali, ovvero decisamente male [liquidati in 2 stereotipi i baristi: pregiudicati, rozzi]. Cosa volete che c’entri il colore della pelle in un caso simile?” Già, che bisogno c’è di uno stereotipo in più? I 5 elencati bastano e avanzano a chiudere il fatto in cronaca di ordinaria violenza metropolitana.
E invece non è ordinaria. Parliamone. Perché la cura del problema non dipende dal decidere se Milano è malata o no di razzismo. Ma dall’ammettere che Milano – l’Italia – è malata di rancore. Una malattia che si sta aggravando proprio con l’esasperazione di luoghi comuni, consolatori o accusatori secondo il gioco delle parti. Ci vogliono onestà e coraggio per scavare oltre, in questo e negli altri omologhi episodi che si moltiplicano, con le stesse dinamiche. Se Abdul avesse avuto la faccia bianca, probabilmente i baristi avrebbero visto in lui quello che era: solo uno dei tanti figli italiani senza regole, in giro a far danni di notte, con cui chi lavora in periferia ha a che fare anche troppo spesso. Nostri. E la spranga si sarebbe fermata prima del massacro. Ma di fronte a chi porta in faccia la diversità, “i nostri” non ci hanno visto più: Abdul non è “dei nostri”. E’ sul “bastardo” che la spranga non ha più inibizioni. O invece immaginiamo che la spranga colpisca a morte comunque, e a terra ucciso resti un qualunque diciannovenne bianco, lui sì dei “nostri”. Quale il giudizio dell’opinione pubblica? Chi si stava difendendo da chi, tra un figlio di mamma ladruncolo incauto e due adulti con precedenti penali proprio per reati contro il patrimonio?
Ma Abdul – italiano - la pelle ce l’ha nera. Perciò non solo non è più “dei nostri”, ma non è più neanche un individuo; viene chiuso a chiave dentro una categoria: quella degli “intrusi”. E’ la paura covata che diventa rancore; impedisce di identificare gli altri uno a uno come persone, e li fa percepire in blocco come minaccia: il nemico. I baristi pregiudicati di periferia, penultimi della fila, hanno sfogato sull’ultimo la paura di aver paura. Sono spesso i penultimi, i più spietati con gli ultimi. Perché tocca a loro viverci gomito a gomito, da soli; ed è l’incontro con qualcuno più “intruso” di noi che sveglia il terrore di ripiombare in fondo, di perdere le posizioni precariamente conquistate, di esporre una “diversità” che ci rende vulnerabili.
Cambiano le cose, oh se cambiano, quando è il rancore degli altri che ci cancella come persone, e ci chiude a chiave in una categoria di ultimi da cui nessuno sforzo ci riscatterà. Nell’aria inquinata che respiriamo, il rancore dei luoghi comuni corrode peggio della diossina. E per liberarsene non c’è che l’esercizio testardo, controcorrente, del guardarsi negli occhi e rinforzare gli anelli più deboli: sono loro i più esposti, saranno loro a cedere per primi. Ma il conto del rancore siamo tutti, a pagarlo.

Paola Pessina

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